Negli Anni Sessanta comincia ad andare in crisi la fiducia verso il mercato che da solo non basta a garantire la massima crescita.
Il possesso di beni materiali, macchine, denaro non ha niente a che vedere con il benessere, la giustizia e la felicità. Il fatto che le società avanzate misurino il progresso attraverso l’aumento del prodotto interno lordo fa coincidere il progresso con lo sviluppo inteso come una produzione crescente di merci a cui corrisponde un consumo di risorse: foreste, miniere, suolo ed acque.
Va prendendo così sempre più forza, a livello internazionale, l’idea di sviluppo sostenibile. Per la prima volta nel 1987 era stato definito il concetto di sviluppo sostenibile come modello di sviluppo che “garantisce i bisogni delle generazioni attuali senza compromettere la possibilità che le generazioni future riescano a soddisfare i propri”.
Si deve assicurare la sopravvivenza delle generazioni presenti senza mettere a rischio quella delle generazioni future per il raggiungimento di una migliore qualità della vita, uno sviluppo equo, un’equa accessibilità alle risorse ed il conseguimento di un livello ambientale ottimale.
Lo sviluppo sostenibile si raggiunge anche attraverso un radicale cambiamento dei propri stili di vita: Ramjee Singh, filosofo indiano, già nel 1993 diceva: “O accettiamo un nuovo stile di vita, uno stile di vita non consumistico, oppure dobbiamo affrontare il pericolo ecologico: non c'è un'altra via di scampo”.
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